27 ottobre 2008

Due avventure noiose


Betoniera cavat lapidem - Sono stato a fare un giretto in mountain bike sul Crostolo e a un certo punto, anche se ero solo a un chilometro e mezzo da casa mia in linea d'aria, mi sono trovato in un posto che non conoscevo, al di là di una rete metallica. Ad un tratto mi sono davvero perso, mi sembrava di essere circondato ovunque da fossati invalicabili e se non avessi avuto molte ore di luce davanti a me mi sarei davvero un po' spaventato. Era un posto strano, con delle forre (spero si dica così, insomma delle specie di dirupi ricchi di vegetazione) profonde anche dieci metri e con in fondo alcuni stagni semiprosciugati o prosciugati. Il Crostolo non è in grado di creare delle conformazioni del genere e del resto scorre cinquanta metri più ad ovest, perciò proprio non riuscivo a capire cosa fosse quel posto. Sembrava di essere dentro "Lost", però senza tutti quei colpi di scena da fumetto e con un protagonista molto più sexy di Matthew Fox. Poi a un certo punto mi è venuta in mente la spiegazione, anche se un po' deludente. Ero in una grande cava edile, abbandonata già da qualche anno; c'ero passato di fianco tantissime volte anche da bambino ma non mi era mai venuto in mente di entrarci finchè oggi non ho visto un varco nella recinzione. In effetti sul terreno non era difficile imbattersi in piccoli rifiuti arrugginiti, fossili di un recente passato industriale. Naturalmente ho fatto delle foto, che adesso dovete vedere.
In teatro - Ieri mattina durante una vigilanza in teatro mi è venuta in mente questa cosa: è strano che nessuno, nè scrittore nè regista, abbia mai dedicato (o almeno mi pare) un film o un racconto alle "ore fantasma", quelle ore che scompaiono prima ancora di venire alla luce quando con l'arrivo dell'ora legale mettiamo di colpo avanti l'orologio di sessanta minuti. Ad esempio l'ora da mezzanotte all'una del 30 marzo 2008 non è mai esistita. E quella da mezzanotte all'una del 26 ottobre invece è esistita due volte. Chissà come fanno a scrivere sui tabelloni dei treni nelle notti in cui si mette indietro l'ora? "Il diretto per Modena parte alle ore 0.25. Però non alle prime 0.25; alle seconde 0.25, quelle che avremo dopo aver messo indietro l'orologio". Sembra un po' complicato.

23 ottobre 2008

Miki Marzola


Di solito per sedurre le ragazze dico che abito alla Baragalla, ma più precisamente il quartierino nel quale vivo porta il nome di "Nebbiara", perchè qui tanto tempo fa (nel '600, credo) un gruppone di mercenari teutonici diretti a Reggio per depredarla venne avvolto da una fittissima nebbia che fece loro perdere il senso dell'orientamento allontanandoli dalla città. I reggiani, riconoscenti, eressero un tempietto votivo e diedero un nome a questo posto, che allora doveva essere proprio una landa anonima: lo battezzarono Nebbiara, appunto. Beh, so che non c'entra niente ma così come quasi nessuno conosce questa storiella quasi nessuno più ormai ricorda, purtroppo, le gesta di Michaela Marzola, la mia sciatrice preferita. Michaela era sorella di Ivan, discesista azzurro, e tutti e due andavano forte soprattutto in supergigante, una specialità che ai loro tempi era appena nata. La Marzola, che ora ha 42 anni e si è ritirata quando ne aveva 25, non era fortissima; aveva qualche lacuna tecnica ed era leggerina fisicamente, ma questo non le impediva di essere la più brava azzurra della velocità in un periodo nel quale le italiane (a parte un pochino Katia Delago) giacevano nell'ombra di Austria, Svizzera e Germania. Era la metà degli anni '80, in edicola c'era Nevesport, la coppa del mondo iniziava in agosto con le discese di Las Lenas e il lunedì mattina dopo le gare più belle tagliavo gli articoli del Corriere della Sera. Erano bei tempi. Una domenica mattina di gennaio guardavo una gara maschile (quelle femminili di velocità di solito la Rai non le faceva vedere) quando ad un certo punto il telecronista disse, senza neanche troppa enfasi, "intanto da Megeve giunge notizia che Michaela Marzola è in testa al supergigante femminile". Michaela era scesa con il pettorale numero 30, perchè c'erano ventinove ragazze teoricamente più forti di lei; però una nebbiona aveva invaso la pista costringendo alla cautela le più brave e si era sollevata per qualche minuto prorpio mentre partiva Miki. Nessuno la superò più e la Marzola vinse la sua prima ed ultima gara di Coppa del Mondo (ma poi arrivò anche settima alle Olimpiadi di Calgary) davanti alle teutoniche Kirchner ed Haecker, che secondo me erano discendenti di quei mercenari transitati per il mio quartiere. Così; speravo di trovare un nesso significativo tra le due vicende prima di finire di scrivere la storia ma non me ne è venuto in mente nessuno. Però entrambe le volte la nebbia ha fatto vincere quelli per i quali tifavo. Il titolo completo dell'articolo del Corriere dice: "Il trionfo di una piccola Italia che scia e che pedala", perchè quel giorno un azzurro vinse i mondiali dilettanti di ciclocross togliendo un pò di spazio a Michaela sui giornali.

20 ottobre 2008

Gita a Bianello


Oggi sono andato a fare un giro in bici al castello di Bianello, sulle colline a circa dodici chilometri da Reggio. Non l'avevo mai visitato perchè pensavo non fosse aperto al pubblico, invece la salita che porta in cima è carina, abbastanza difficile e di libero accesso. La costruzione risale all'epoca di Matilde, che al suo interno fu incoronata viceregina di Europa nel 1111. ...
Va bè, non mi piaceva questo post come l'avevo scritto, perciò ecco qua direttamente le foto, niente di speciale. Bianello è il secondo da sinistra dei quattro colli che si vedono in una immagine; insieme costituivano la prima linea difensiva di Matilde, su ognuno di essi un tempo sorgeva un castello. Il paesino ai loro piedi si chiama proprio Quattro Castella.

15 ottobre 2008

Donizone da Canalina


Quando ero piccolo passavo molte giornate in via Donizone da Canossa (De vita Pacorum, pagg. 26-33) ed il nome di quella via non so perchè ma mi era un po' antipatico; forse perchè la d, la n e la z, al contrario della b, della m e della p, erano lettere che non mi piacevano. Solo molti, molti anni più tardi imparai che Donizone era il monaco che narrò la vita di Matilde di Canossa nella Vita Mathildis, una biografia in stile un po' rozzo ed incolto ma fondamentale come documento storico. Alcuni pensano che questo monaco fosse reggiano ma altri sostengono che era nato in Germania e che fu seppellito proprio nel castello di Matilde, e sarebbe proprio perchè ospita le spoglie di questo pastore tedesco che CanOssa si chiama così. Quando seppi il motivo dell'intestazione la via mi divenne più simpatica, perchè mi piaceva questo personaggio tranquillo, diventato famoso, nel suo piccolo, solo per aver scritto la vita della propria contessa. Capirete dunque appieno il mio dramma interiore quando l'altro giorno ho dovuto apprendere che sarei stato io, proprio io, ad offuscare definitivamente la memoria del biografo Donizone. In virtù della mia prosa cristallina sono infatti stato scelto per scrivere un piccolo articolo su Matilde per un mensile nazionale! Quando l'ho saputo stavo quasi per svenire e ho dovuto farmi pettinare dai passanti perchè io non ne avevo la forza. Il problema è che su Matilde non so niente e ne sto studiando la vita proprio adesso; sapevo dell'episodio della genuflessione nella neve (1077) ma ho imparato solo ora che Enrico IV si trovò isolato anche dagli altri principi tedeschi dopo la Dieta di Worms (1076, era una dieta a base di lombrichi molto popolare nel medioevo, rimpiazzata solo nel tardo rinascimento dall'avvento della Weight Watchers) e che la richiesta di perdono a Gregorio VII fu solo una mossa politica, tanto è vero che poco tempo dopo ripresero gli scontri anche militari tra la fazione imperiale e quella pontificia. E' bello perchè nel cuore delle terre matildiche, nei boschi dove vagabondava Matilde, io vado sempre a fare giri in bici: sulla Canossa-Castello di Canossa il mio record è di 26', sulla salita della Madonna della Battaglia (dove i matildici sconfissero gli imperiali nel 1092) credo sia circa di 13'. Così insomma.

13 ottobre 2008

Tre notizie così


Tre notizie da via Goldoni, Baragalla.
Il mistero dell'anatra - Da qualche giorno qui nella mia strada si sente ogni tanto starnazzare un'anatra. Non ho capito se è un gioco di qualche bambino, se è un germano reale del Crostolo (distante 600 mt) che si è perso in un giardino o se qualcuno tiene segretamente in casa una papera, come Joey in Friends o come il papà della Roberta.
L'idolo di ogni bambino - L'altro giorno mentre uscivo in bici da corsa sono passato di fianco a tre bimbi piccoli che con la loro biciclettina stavano facendo una specie di gara intorno all'aiuola stradale che spezza a metà la via. Quando mi ha visto, il più grande si è fermato e ha detto: "eeeh, guardate! Un ciclista vero!". Mi son sentito orgoglioso.
Un fisico rovinato dai Pandistelle - Su laRepubblica c'è un giochino che permette di calcolare il proprio peso forma. Il mio sarebbe 63 kg, appena 16 in meno di quelli che peso. Michael Moore ha deciso che farà un docufilm su di me per denunciare i danni provocati nella gioventù reggiana dall'abuso di biscotti del Mulino Bianco.

11 ottobre 2008

Gufo Paco


Questo è un racconto per bambini scritto da una mia amica, alla quale naturalmente non ho chiesto il permesso di pubblicarlo qui. Il racconto è chiaramente ispirato a me, anche se lei nega adducendo puerili argomentazioni come il fatto che l'ha scritto tre anni prima di sapere che io mi chiamo così. Si intitola..
Gufo Paco e il buco nel cielo
Gufo Paco nacque insieme ai suoi sette fratelli in una notte di luna piena; e mentre gli altri cominciavano a pigolare spalancando i loro becchi per la fame, lui rimase incantato ad osservare il disco di luce. “Questo figlio non mangia… sarà forse malato?” chiese gufa Benita, che era una madre molto apprensiva. “Mah… chissà…”, le rispose gufo Galindo, e non si capiva se davvero la stava ascoltando o se lo diceva tanto per dire. Perché Galindo era il gufo più vecchio della foresta, e aveva visto tante nidiate nella sua vita che oramai non ci faceva caso. “Quello è un buco!!!!!!!!!” gridò gufo Paco; e furono le sue prime parole.“Ma che buco e buco”, gli rispose gufa Benita: “non lo vedi che quella è la luna?”.Lui non le fece caso, e da allora ogni notte fu la stessa storia:“Ti dico che è un buco”, insisteva lui, “un buco di luce nella notte.”E non si poteva convincerlo del contrario. “Nostro figlio è proprio matto… la luna piena gli ha dato alla testa”, si lamentava gufa Benita ogni mattina, prima di addormentarsi di fianco al marito;“Mah… chissà…”, le rispondeva gufo Galindo, e non si capiva se davvero la stava ascoltando o se lo diceva tanto per dire.
Un giorno gufo Paco si accorse che le sue ali erano cresciute abbastanza per poter spiccare il primo volo, e decise di andare a vedere coi suoi occhi se la luna era davvero un buco.“Non puoi andare! Dicono che la luna sia gelosa, e se tu ti avvicini troppo lei non ti lascerà più andare…”“E chi è che lo dice?” le rispose Paco; “Nessuno di quelli che sono partiti è mai tornato indietro a raccontarlo”“Appunto per questo! Non lo capisci?” Ma gufo Paco aveva deciso. Salì in cima al ramo più alto e da lì si lanciò verso il cielo. Gufa Benita rimase a guardarlo fino a quando divenne un puntino nero contro il disco bianco della luna, e asciugandosi una grossa lacrima che le scivolava tra le piume, disse a gufo Galindo:“Nostro figlio è proprio matto… arriverà fino alla luna, e la luna ce lo porterà via”.“Mah… chissà…”, le rispose gufo Galindo, e non si capiva se davvero la stava ascoltando o se lo diceva tanto per dire. Gufo Paco intanto andava verso la luna sparato come un razzo, e la vedeva sempre più grande, fino a quando non riuscì più a vedere il suo contorno, e quello che vide fu soltanto bianco.Allora cominciò ad avere paura: la luce totale fa paura come il buio totale, perché ti acceca e non ti fa vedere più niente. “Aiuto! Aiuto!” gridò gufo Paco; “Non ci vedo più!”. Arrivò allora una colomba bianca, che prima non si vedeva perché si confondeva con la luna; aveva un ramo d’oro nel becco, e sembrava che tutto il bagliore della luna emanasse da quello. “Benvenuto nel mondo della luce, gufo Paco; accetta questo mio dono.” Detto ciò gli posò il ramo sul petto, leggero come una carezza. Il piccolo gufo sentì un calore dolcissimo che gli riempiva il cuore, e da lì si diffondeva in tutto il corpo; chiuse gli occhi abbandonandosi a quella piacevole sensazione, e quando li riaprì… Vide. Vide quel mondo fatto di luce. Ma non si può descriverlo a chi non l’ha visto; sarebbe come se voi tentaste di spiegare a un cieco che cosa vuol dire vedere. Perché per quelli che stanno in quel mondo di luce al di là del cielo, noi qui sulla terra siamo tutti ciechi. “Allora è vero quello che pensavo! Che la luna è un buco! E qui c’è un altro mondo!”Per l’entusiasmo non si conteneva…“È vero gufo Paco… ma tu sei un uccello della notte, e qui la luce per te è troppo forte. Se non ti avessi toccato con la mia verga saresti già morto. E così accadrà, se non te ne andrai via in fretta; ho voluto premiare il tuo coraggio, ma non ho il potere di farti restare per più di qualche istante.” Allora gufo Paco pensò a tutti quelli che erano saliti in cielo prima di lui; la luce li aveva innamorati così tanto, come succedeva a lui adesso, che avevano preferito morire in quel mondo piuttosto che lasciarlo?Forse alcuni erano tornati, ma non avevano detto a nessuno della luce, perché sarebbe stato come spiegare la vista a un cieco. Gufo Paco considerò le due possibilità, e intanto sentiva il suo corpo bruciare, perché il potere della verga stava per finire; stava per sciogliersi nella luce quando con un guizzo repentino si tuffò di sotto, lasciandosi cadere verso il basso. Dalla cima del suo albero gufa Benita lo vide precipitare dal cielo come una stella cadente; “Nostro figlio è proprio matto”, disse a gufo Galindo: “È arrivato così vicino alle stelle che ha preso fuoco.” “Mah… chissà…”, le rispose gufo Galindo, e non si capiva se davvero la stava ascoltando o se lo diceva tanto per dire.
Quando gufo Paco planò sull’albero le sue piume si erano ormai spente, ma gli era rimasta una macchia bianchissima nel centro del petto, che sembrava risplendere come se fosse accesa.Quando gufa Benita lo guardò, si accorse che non era più un bambino. “Nostro figlio…”, disse a gufo Galindo; ma non riuscì a continuare, perché per l’emozione non le uscivano le parole. “Mah… chissà…”, le rispose gufo Galindo. Detto questo, Gufo Galindo si stiracchiò sbadigliando.E mentre apriva le ali gufo Paco vide. Vide che gufo Galindo aveva sul petto una macchia bianchissima, identica alla sua. “Allora anche tu ci sei stato?”, chiese gufo Paco a suo padre con voce tremante. “Mah… chissà…”, gli rispose gufo Galindo. E non si capiva se davvero lo stava ascoltando. O se lo diceva tanto per dire.

7 ottobre 2008

Una volta qui erano tutti campetti


Un paio di settimane fa, durante un convegno in teatro, un relatore ha raccontato che i bambini di oggi fanno paradossalmente meno attività sportiva di quelli di un tempo, nonostante il numero di ragazzi iscritti nelle società sportive sia aumentato. C'è una cosa che rendeva facile accorgersi di questo fenomeno, anche senza conoscere i dati: la scomparsa dei campetti di calcio. Quand'ero piccolo esistevano vicino a casa mia almeno 11 campi non recintati sui quali potevamo giocare: oltre ai cortili in asfalto del mio condominio, del condominio di fianco e del Peep, potevamo scegliere tra il campo della chiesa di via Bismantova, il campetto di via Monte Cisa, il campetto della Saccai, il campo del Sole numero uno, il campo del Sole numero due ed i tre campetti di via Assalini. Quando tornavo a casa da scuola pranzavo in ventiquattro secondi e poi correvo giù in cortile a giocare a pallone (con il moccolo che cadeva da una narice, i bottoni della camicia allacciati male ed una scarpa slacciata; senza queste cose non si poteva giocare. Nei cortili più di lusso era stato avviato un servizio che permetteva a chi si era scordato il moccolo di utilizzarne un po' offerto dal cortile, per potere entrare) e tornavo su in casa solo sette ore dopo, al nono richiamo di mia madre. Adesso i bambini possono scegliere fra molti sport, mentre allora si giocava in pratica solo a pallone; e quelli che giocano a calcio lo fanno comunque solo per una o due ore al giorno nella loro squadretta ufficiale, su campi da gioco "veri". Conseguenza: i campetti "spontanei", senza recinzione, senza reti nelle porte e senza linee bianche, stanno sparendo. I cortili dove giocavo da piccolo ci sono ancora, ma quando passo di fianco non vedo mai delle partite, al massimo delle coppie di fratellini che si fanno i passaggi; il campetto di via Bismantova esiste ancora ma hanno messo due porte da calcetto disposte sui lati, evidentemente perchè non ci vanno più abbastanza bimbi per giocare a tutto campo; in via Monte Cisa si gioca solo ad una porta; il campetto della Saccai ha lasciato posto a delle case; nei campetti del Sole le porte da calcio sono scomparse e sui prati si sdraia la gente d'estate; dei tre campettini di via Assalini ne sono rimasti due, sempre deserti. Sul campo di Canali, dove avevo giocato solo una volta, ora giace addirittura, fra l'erba alta, una rotoballa, che come ben si sa è il massimo oltraggio possibile per un campetto di calcio.

5 ottobre 2008

Rien


Ieri sera in Cavallerizza c'è stato "Un giorno da matti", evento sul tema della pazzia diviso in 5 spettacoli. Il secondo era co-diretto dall'ex maschera Riccardo P. E' stata una serata lunga ma interessante; è stata l'occcasione anche per riascoltare una canzone molto bella, "Rien de rien", suonata alla fine del primo spettacolo forse a sottolineare che i folli non devono avere rimpianti o sensi di colpa per la loro condizione, che nasce anch'essa, così dicevano nel terzo spettacolo, dalla vita.
Un giorno da matti: Annalisa A, Riccardo A, Io.