23 giugno 2025

Lo sciopero delle Reggiane, settantacinque anni fa


 Lo sciopero delle Officine Reggiane del 1950-51, con il quale gli operai si opposero per un intero anno alla volontà della dirigenza di licenziare metà di loro, è rimasto nella storia delle lotte sindacali italiane. 

Tre quarti di secolo sono trascorsi da allora. La fabbrica fu occupata per 368 giorni, dal 5 ottobre 1950 all’8 ottobre 1951, ma la lunga e coraggiosa vertenza si concluse, sul piano concreto, in una resa: dopo un anno di auto-gestione operaia la nuova dirigenza ri-assunse solo 700 operai, a fronte dei più di quattromila salariati fino a tredici mesi prima.


Tra quelle migliaia di lavoratori in lotta uno dei più giovani era Dario Cavalca, classe 1932 e dunque diciottenne all’inizio dello sciopero. Ora Cavalca vive a Mancasale, con vista sulle vele di Calatrava, insieme a figlio, nuora, nipote e nipotini.

“Ero entrato alla Reggiane il 13 maggio 1947 -ricorda- Avevo appena compiuto 15 anni, prima di quell’età non ti assumevano. Non era il mio primo lavoro; dalla fine della guerra al ’47 ero stato a bottega da Salsi calzolaio, in via Crispi, di fronte al Radium; stava tra Moda Italiana e la cioccolateria Helvetia, forse qualcuno ricorderà. Ma non mi piaceva fare il calzolaio”.


Alle Reggiane fabbricavate aerei?

“Io ero nel reparto mulini. Costruivamo mulini per la macina del grano. Nel mio reparto eravamo in 60 o 70, ma l’intera azienda coinvolgeva migliaia di persone. Durante il conflitto, quando le Reggiane creavano aerei da guerra, gli impiegati erano dodicimila. Per una città come Reggio, un’industria fondamentale. Ai mulini avevamo un caporeparto pingue, soprannominato per ciò ‘Il prete’; e così io divenni ‘Cerech’, il chierichetto, perché ero il più giovane e, allora, anche un po’ paffuto”.


Nell’autunno ’50 decideste lo sciopero.

“La dirigenza voleva lasciare a casa metà degli operai. Si scelse di occupare la fabbrica, per contrastare quella decisione e successivamente anche per impedire che la produzione si interrompesse. Durante quei dodici mesi fu creato il trattore R60, rimasto famoso proprio perché ideato e prodotto dagli operai”.


Dodici mesi senza stipendio.

“Furono duri soprattutto per chi aveva una famiglia da mantenere. Io non avevo ancora moglie, sentivo meno pressione. Proprio per questo la sera del 31 dicembre ’50 fui scelto per il servizio di guardia. Mia madre se ne ebbe a male: ‘quando non ci sarò più ti rammaricherai di questo capodanno trascorso senza la tua famiglia!’… “


Provava orgoglio a essere chiamato a quei compiti?

“Beh, c’era senso di avventura e la sensazione di stare facendo la cosa giusta. Poi, sì, anche un po’ di orgoglio”.


La popolazione vi sosteneva?

“Nelle cucine le donne facevano da mangiare per tutti. A Natale ’50 ci fu una raccolta di sostegno, i contadini della campagna donarono tante galline che furono distribuite una a testa. Io portai la mia a casa, a Buco del Signore; la spennai e la appesi fuori dalla finestra, allora non avevamo certo il frigorifero. Al mattino al risveglio era sparita… qualche vicino doveva averla notata”.


Dove trascorrevate la notte durante l’occupazione?

“Dormivamo sulle brande, negli uffici. Ma non passavamo in fabbrica tutto il tempo. In quel periodo ad esempio mi avvicinai al teatro; un mio amico faceva il capo-claque al Municipale e mi coinvolse nella claque. Il gradino successivo fu come comparsa nelle opere liriche: ”La forza del destino”, “Boheme”, “Turandot”; “La traviata”, che musicalmente era semplice semplice. Una delle mie ultime prove da comparsa fu quando avvenne il debutto di quel tenore modenese, Luciano... Luciano Pavarotti. Provai anche a divenire corista, ma dopo tre o quattro tentativi il maestro del coro mi prese da parte e mi disse ‘guardi, Dario, penso che non sia cosa per lei’ “


Lo sciopero si concluse dopo 368 giorni, ma senza felici risultati per voi.

“La pressione delle forze di polizia si faceva più incalzante e nel frattempo molti operai, spinti dalla necessità, avevano trovato posto altrove: alla Lombardini di Pieve, alla Landini di Fabbrico, non pochi emigranti in Francia. Eravamo delusi? Senz’altro. Io cercai di farmi riassumere nel ’53, ma la consegna dei nuovi direttori era che chi aveva fatto la lotta non poteva essere assunto. Che io sappia, nessuno dei partecipanti all’occupazione riebbe il posto”.


13 giugno 2025

La Sala Melato nel Teatro Ariosto


 La Sala Melato, il foyer del teatro Ariosto, è uno dei mille luoghi del territorio reggiano cosparsi di polvere di storia. La sala prende nome da un busto in bronzo del 1920 che vi svetta e che raffigura Maria Melato, attrice reggiana molto amata tra gli anni ’10 e i ’30 del novecento non solo in Italia ma anche in Spagna e nelle Americhe (“quando da bambina assumevo atteggiamenti drammatici -ha ricordato di recente una signora di Buenos Aires- i miei genitori mi chiamavano Maria Melato, anche se non capivo perché…”). Il busto in bronzo fu plasmato dallo scultore reggiano Riccardo Secchi e inaugurato nella primavera 1922, alla presenza dell’attrice. Melato aveva fatto tappa a Reggio nel corso della sua tournée e sul palcoscenico dell’Ariosto interpretò in quell’occasione tre drammi: la prima sera “La Gioconda” di D’Annunzio; la seconda sera, dopo l’inaugurazione pomeridiana del busto, “La vena d’oro” di Zorzi; la terza sera, fuori programma quale ringraziamento ai reggiani, un altro dei copioni da lei più amati, “Come le foglie” di Giacosa.


Questo rapido susseguirsi di titoli non deve stupire: un secolo fa il teatro di prosa era un po’ come la tv oggidì; chi poteva si recava al proprio palco o poltrona ogni sera e pretendeva di godersi sempre qualcosa di nuovo, così come oggi ci parrebbe strano trovare lo stesso film sullo stesso canale per due serate di fila. Anche per questo motivo Melato, dotata di una memoria eccezionale e d’un amore per il teatro ancor più grande, arrivò a interpretare 245 drammi diversi nella propria carriera, secondo una recente ed eccellente ricerca (P.Giovanelli, “Maria Melato. Voci d’archivio, voci di scena”).

Nel corso della sua attività senza requie a Melato, la cui voce (oggi incredibilmente perduta: non abbiamo sue registrazioni audio) aveva il potere di cullare ed accarezzare gli spettatori, capitava di tornare di tanto in tanto in tour a Reggio e molti anni dopo quel 1922 scrisse: “ho rivisto con gioia il mio busto in bronzo nell’atrio del bel teatro Ariosto. Non è molto somigliante, ma non importa: è il mio busto, è una cosa importante per me. E ogni sera prima di uscire dal teatro vado a salutarmi molto soddisfatta”.

Il luogo ove Melato “si salutava” soddisfatta era un poco discosto dall’attuale collocazione del busto. Ce lo svela una fotografia conservata dalla biblioteca Panizzi e databile all’aprile 1948, proprio ai giorni dell’ultimo ritorno a Reggio dell’attrice; la foto, scattata in un periodo nel quale l’Ariosto fungeva anche e soprattutto da cinema, mostra il primo atrio centrale del teatro; sulla sinistra si scorge la locandina de “La vita è meravigliosa”, film con Jimmy Stewart, sulla destra il busto di Melato, affacciato sull’atrio centrale e non, come ora, sull’atrio laterale.
La stanza chiamata adesso sala Melato era infatti allora parte dell’adiacente trattoria, l’attuale Trattoria Sipario; negli anni ’80 il teatro inglobò quella sala e il busto di Maria fu arretrato nella nuova stanza, che all’attrice finì poi per essere intitolata.

Adesso nella Sala Melato il busto brilla a fianco del guardaroba, sopra a un vecchio pianoforte senza coda e tra due cornici che racchiudono rispettivamente una riproduzione della cupola del teatro e una locandina di una compagnia siciliana.
Ecco, avanziamo una proposta, senza pretese: non sarebbe bello sostituire quelle due cornici, pur così interessanti, con locandine di spettacoli di Maria, se disponibili, per rendere la sala pienamente dedicata alla più brava attrice reggiana di tutti i tempi?