27 giugno 2025

Gita a Rontano, 2


Un aggiornamento sul casino di caccia abbandonato di Rontano, sopra Roteglia. Alla terza spedizione (la prima andò clamorosamente a vuoto) ho finalmente e con sorpresa trovato il bagno del quale parla un libro dedicato al pittore Anselmo Govi. Dopo la seconda spedizione pensavo che il bagno fosse andato perduto e così è stata una bella emozione imbattermici oggi, seppur ritrovandolo deturpato come si vede nelle foto. I graffiti sembrano risalire tutti agli anni '90, proprio dal '90 al '99; almeno nell'ultimo quarto di secolo il bagno pare esser stato lasciato in pace. A terra c'è ancora una vasca, solitaria. Non ci sono altri sanitari. Forse era un bagno dedicato solo al relax acquatico, come in una spa dei giorni nostri. Forse anche Coppi, ospite del casino nel '48, si immerse a mollo guardando pesci e gabbiani. Sulle pareti una prima fascia di piastrelline-mosaico a sfumature d'azzurro, poi una fascia dipinta ad ambienti marini e infine il soffitto, decorato con un cielo solcato da gabbiani. Il soffitto è la parte più malandata, immagino a causa della forza di gravità; mi pare sia rimasto un solo gabbiano, peraltro ben disegnato. Cosa particolare è il fatto che questo bagno sorgeva in un piccolo edificio (a forma di edicola o tempietto) staccato dal casino, con entrata che dà sul crinale del monte e finestra che si affaccia sulla luminosa valle del Secchia. La struttura del "tempietto" sembra solida, i dipinti come si vede sono rovinati assai ma molto meglio conservati rispetto a quelli -pressoché scomparsi- del casino vero e proprio. So che è facile lanciare proposte, ma forse con i soldi di qualche pnrr si potrebbe provare a salvare almeno questo bagno, restaurando per quanto possibile i dipinti e poi chiudendo con una porta la struttura. A poche decine di metri sorge un apparentemente ben frequentato agriturismo ("Agriturismo San Valentino"): forse a loro, chissà, potrebbe poi interessare gestirne l'apertura. Ricordo che Anselmo Govi, l'autore di questi dipinti, è anche il pittore della volta, degli atrii e del sipario del teatro Ariosto; e Prospero Sorgato, architetto del casino di caccia, disegnò il mercato coperto, il cimitero monumentale e tanti altri begli edifici che caratterizzano tuttora Reggio. I nomi di Coppi, Govi e Sorgato e l'originalità delle decorazioni potrebbero suscitare l'interesse di qualche turista.

23 giugno 2025

Un Govi abbandonato tra i boschi di Rontano


In mezzo al boschetto una cinta di rovi intrecciati protegge fedelmente le rovine del casino di caccia. Penetrarli non è facile, le spine si piantano nei vestiti, nei nudi avambracci e nei polpacci. Siamo a Rontano, sulle colline sopra Roteglia, laggiù il ghiaioso e assolato letto del Secchia. Fino a mezzo secolo fa Rontano era un vero paesino, ricco perfino di una scuola elementare; ora non compare neppure sulle mappe. Le poche case abitate, pur vivacizzate da un frequentato agriturismo (San Valentino), si snodano rare fino alla fine della strada asfaltata, che si spegne in un sentiero. A Rontano nel 1943 l’avvocato Maestri, appassionato di caccia, decise di costruire un casino con allevamento di fagiani e riserva di caccia. Il progetto e le decorazioni pittoriche furono affidati a due illustri nomi: Prospero Sorgato e Anselmo Govi, amici e compagni di caccia di Maestri. 

Nell’autunno 1948 il casino ospitò anche Fausto Coppi, che aveva appena vinto il Giro dell’Emilia e che adorava andar per colline con doppietta e cartucciera. Coppi, salito a Rontano insieme al massaggiatore Cimurri e al pugile Bondavalli, riuscì ad accoppare due pernici ma nessun fagiano; si consolò con un eccellente pranzo al casino. 


La struttura conobbe però fortuna solo per due decenni: invecchiato il gruppo di amici che l’aveva creata, rimase stancamente attiva fino ai primi anni ’80, forse dopo uno o più rimaneggiamenti architettonici. Da allora giace abbandonata, inerme alle intemperie da più di quaranta inverni consecutivi. 

Ora i muri sono in rovina, tetto e soffitti crollati, dei dipinti di Govi rimane solo un frammento vandalizzato che raffigura -probabilmente- il gruppo di amici fondatori. Forse varrebbe la pena salvare almeno quello.


Sulla facciata campeggiavano in origine due grandi dipinti di Diana e Atteone, nella sala da pranzo erano scene di caccia e cacciagione, in cucina il ritratto della cuoca indaffarata tra i vapori; ma il capolavoro doveva essere la sala da bagno per gli ospiti (o "gabinetto", come dice meglio un articolo del '48), che presentava pareti popolate da pesci e sul soffitto un cielo navigato da gabbiani e visto attraverso la rifrazione dell’acqua, a riprodurre la visione da sotto il mare. Un’idea originale, quasi geniale. Di quel cielo nella mia faticosa spedizione in bici non ho trovato traccia; nessun pezzettino di blu emergeva dai mucchi di calcinacci che un tempo si ergevano a soffitto. 


A fianco della struttura rimangono una voliera desolata, una serie allineata di cucce per i cani che attendevano all'ombra i loro gozzoviglianti padroni, una nicchia con tre ugelli; è probabile che questa fosse la “Fontana di Bacco”, dalla quale spillavano come per magia vino bianco, acqua e vino rosso. Coppi, astemio, scelse l’ugello dell’acqua.


Il destino d’abbandono del casino di Rontano ricorda quello dello chalet Diana nei giardini di Reggio, anch’esso disegnato da Sorgato e anch’esso almeno nominalmente legato alla caccia, della quale Diana era dea protettrice. Lo chalet Diana fu demolito a fine anni ‘50 per far posto all’asilo omonimo. Lo chalet di Rontano è ancora lassù e forse meriterebbe di essere in qualche modo salvato. Se i rovi, suoi unici protettori da più di quarant’anni, lo permetteranno.


Dati geografici del casino: 44°30'11.2"N 10°41'19.7"E


Lo sciopero delle Reggiane, settantacinque anni fa


 Lo sciopero delle Officine Reggiane del 1950-51, con il quale gli operai si opposero per un intero anno alla volontà della dirigenza di licenziare metà di loro, è rimasto nella storia delle lotte sindacali italiane. 

Tre quarti di secolo sono trascorsi da allora. La fabbrica fu occupata per 368 giorni, dal 5 ottobre 1950 all’8 ottobre 1951, ma la lunga e coraggiosa vertenza si concluse, sul piano concreto, in una resa: dopo un anno di auto-gestione operaia la nuova dirigenza ri-assunse solo 700 operai, a fronte dei più di quattromila salariati fino a tredici mesi prima.


Tra quelle migliaia di lavoratori in lotta uno dei più giovani era Dario Cavalca, classe 1932 e dunque diciottenne all’inizio dello sciopero. Ora Cavalca vive a Mancasale, con vista sulle vele di Calatrava, insieme a figlio, nuora, nipote e nipotini.

“Ero entrato alla Reggiane il 13 maggio 1947 -ricorda- Avevo appena compiuto 15 anni, prima di quell’età non ti assumevano. Non era il mio primo lavoro; dalla fine della guerra al ’47 ero stato a bottega da Salsi calzolaio, in via Crispi, di fronte al Radium; stava tra Moda Italiana e la cioccolateria Helvetia, forse qualcuno ricorderà. Ma non mi piaceva fare il calzolaio”.


Alle Reggiane fabbricavate aerei?

“Io ero nel reparto mulini. Costruivamo mulini per la macina del grano. Nel mio reparto eravamo in 60 o 70, ma l’intera azienda coinvolgeva migliaia di persone. Durante il conflitto, quando le Reggiane creavano aerei da guerra, gli impiegati erano dodicimila. Per una città come Reggio, un’industria fondamentale. Ai mulini avevamo un caporeparto pingue, soprannominato per ciò ‘Il prete’; e così io divenni ‘Cerech’, il chierichetto, perché ero il più giovane e, allora, anche un po’ paffuto”.


Nell’autunno ’50 decideste lo sciopero.

“La dirigenza voleva lasciare a casa metà degli operai. Si scelse di occupare la fabbrica, per contrastare quella decisione e successivamente anche per impedire che la produzione si interrompesse. Durante quei dodici mesi fu creato il trattore R60, rimasto famoso proprio perché ideato e prodotto dagli operai”.


Dodici mesi senza stipendio.

“Furono duri soprattutto per chi aveva una famiglia da mantenere. Io non avevo ancora moglie, sentivo meno pressione. Proprio per questo la sera del 31 dicembre ’50 fui scelto per il servizio di guardia. Mia madre se ne ebbe a male: ‘quando non ci sarò più ti rammaricherai di questo capodanno trascorso senza la tua famiglia!’… “


Provava orgoglio a essere chiamato a quei compiti?

“Beh, c’era senso di avventura e la sensazione di stare facendo la cosa giusta. Poi, sì, anche un po’ di orgoglio”.


La popolazione vi sosteneva?

“Nelle cucine le donne facevano da mangiare per tutti. A Natale ’50 ci fu una raccolta di sostegno, i contadini della campagna donarono tante galline che furono distribuite una a testa. Io portai la mia a casa, a Buco del Signore; la spennai e la appesi fuori dalla finestra, allora non avevamo certo il frigorifero. Al mattino al risveglio era sparita… qualche vicino doveva averla notata”.


Dove trascorrevate la notte durante l’occupazione?

“Dormivamo sulle brande, negli uffici. Ma non passavamo in fabbrica tutto il tempo. In quel periodo ad esempio mi avvicinai al teatro; un mio amico faceva il capo-claque al Municipale e mi coinvolse nella claque. Il gradino successivo fu come comparsa nelle opere liriche: ”La forza del destino”, “Boheme”, “Turandot”; “La traviata”, che musicalmente era semplice semplice. Una delle mie ultime prove da comparsa fu quando avvenne il debutto di quel tenore modenese, Luciano... Luciano Pavarotti. Provai anche a divenire corista, ma dopo tre o quattro tentativi il maestro del coro mi prese da parte e mi disse ‘guardi, Dario, penso che non sia cosa per lei’ “


Lo sciopero si concluse dopo 368 giorni, ma senza felici risultati per voi.

“La pressione delle forze di polizia si faceva più incalzante e nel frattempo molti operai, spinti dalla necessità, avevano trovato posto altrove: alla Lombardini di Pieve, alla Landini di Fabbrico, non pochi emigranti in Francia. Eravamo delusi? Senz’altro. Io cercai di farmi riassumere nel ’53, ma la consegna dei nuovi direttori era che chi aveva fatto la lotta non poteva essere assunto. Che io sappia, nessuno dei partecipanti all’occupazione riebbe il posto”.


13 giugno 2025

La Sala Melato nel Teatro Ariosto


 La Sala Melato, il foyer del teatro Ariosto, è uno dei mille luoghi del territorio reggiano cosparsi di polvere di storia. La sala prende nome da un busto in bronzo del 1920 che vi svetta e che raffigura Maria Melato, attrice reggiana molto amata tra gli anni ’10 e i ’30 del novecento non solo in Italia ma anche in Spagna e nelle Americhe (“quando da bambina assumevo atteggiamenti drammatici -ha ricordato di recente una signora di Buenos Aires- i miei genitori mi chiamavano Maria Melato, anche se non capivo perché…”). Il busto in bronzo fu plasmato dallo scultore reggiano Riccardo Secchi e inaugurato nella primavera 1922, alla presenza dell’attrice. Melato aveva fatto tappa a Reggio nel corso della sua tournée e sul palcoscenico dell’Ariosto interpretò in quell’occasione tre drammi: la prima sera “La Gioconda” di D’Annunzio; la seconda sera, dopo l’inaugurazione pomeridiana del busto, “La vena d’oro” di Zorzi; la terza sera, fuori programma quale ringraziamento ai reggiani, un altro dei copioni da lei più amati, “Come le foglie” di Giacosa.


Questo rapido susseguirsi di titoli non deve stupire: un secolo fa il teatro di prosa era un po’ come la tv oggidì; chi poteva si recava al proprio palco o poltrona ogni sera e pretendeva di godersi sempre qualcosa di nuovo, così come oggi ci parrebbe strano trovare lo stesso film sullo stesso canale per due serate di fila. Anche per questo motivo Melato, dotata di una memoria eccezionale e d’un amore per il teatro ancor più grande, arrivò a interpretare 245 drammi diversi nella propria carriera, secondo una recente ed eccellente ricerca (P.Giovanelli, “Maria Melato. Voci d’archivio, voci di scena”).

Nel corso della sua attività senza requie a Melato, la cui voce (oggi incredibilmente perduta: non abbiamo sue registrazioni audio) aveva il potere di cullare ed accarezzare gli spettatori, capitava di tornare di tanto in tanto in tour a Reggio e molti anni dopo quel 1922 scrisse: “ho rivisto con gioia il mio busto in bronzo nell’atrio del bel teatro Ariosto. Non è molto somigliante, ma non importa: è il mio busto, è una cosa importante per me. E ogni sera prima di uscire dal teatro vado a salutarmi molto soddisfatta”.

Il luogo ove Melato “si salutava” soddisfatta era un poco discosto dall’attuale collocazione del busto. Ce lo svela una fotografia conservata dalla biblioteca Panizzi e databile all’aprile 1948, proprio ai giorni dell’ultimo ritorno a Reggio dell’attrice; la foto, scattata in un periodo nel quale l’Ariosto fungeva anche e soprattutto da cinema, mostra il primo atrio centrale del teatro; sulla sinistra si scorge la locandina de “La vita è meravigliosa”, film con Jimmy Stewart, sulla destra il busto di Melato, affacciato sull’atrio centrale e non, come ora, sull’atrio laterale.
La stanza chiamata adesso sala Melato era infatti allora parte dell’adiacente trattoria, l’attuale Trattoria Sipario; negli anni ’80 il teatro inglobò quella sala e il busto di Maria fu arretrato nella nuova stanza, che all’attrice finì poi per essere intitolata.

Adesso nella Sala Melato il busto brilla a fianco del guardaroba, sopra a un vecchio pianoforte senza coda e tra due cornici che racchiudono rispettivamente una riproduzione della cupola del teatro e una locandina di una compagnia siciliana.
Ecco, avanziamo una proposta, senza pretese: non sarebbe bello sostituire quelle due cornici, pur così interessanti, con locandine di spettacoli di Maria, se disponibili, per rendere la sala pienamente dedicata alla più brava attrice reggiana di tutti i tempi?

9 maggio 2025

Le baccanti del Teatro Municipale


 Gli spettatori che varcano le grandi porte a vetro del teatro Valli, intenti come sono a salutare gli amici tra la folla, a leggere il programma di sala o a chiedere indicazioni alle impagabili maschere, raramente prestano attenzione al soffitto dell’atrio. I pochi che si concedono qualche secondo per alzare gli occhi sono ricompensati dalla visione di uno sfondo oro e blu lapislazzuli sul quale danzano dodici baccanti, le antiche adoratrici del dio Bacco, dipinte nel 1856 dal reggiano Giuseppe Ugolini. Anche quei pochi spettatori più osservatori, però, ignorano probabilmente il segreto romantico che dietro ai dipinti si cela. A tramandarlo fu un articolo del 1944, uno di quegli articoli di giornale così preziosi per conservare traccia della storia minuta dei nostri teatri, quella storia che non trova spazio nei libri e il ricordo della quale pian piano svanisce dalla memoria degli uomini. Fu pubblicato da “Il Solco Fascista”, quotidiano stampato a Reggio e dal chiaro orientamento politico. In quell’articolo il giornalista “Argo” ricordava che ancora allora, nel ’44, a tanti decenni dalla realizzazione dei dipinti, in città “si bisbiglia che Ugolini in una delle figure del soffitto del teatro abbia ritratto le fattezze della fanciulla del suo cuore, ch’era una delle nobili sorelle Cugini”. 

Insomma, Giuseppe Ugolini avrebbe dipinto di nascosto (se no perché bisbigliarlo?) nella figura di una delle dodici baccanti la ragazza della quale era innamorato. Ma in quale delle dodici? L’articolo purtroppo non lo dice. Forse se ne era già persa memoria.

Noi, trasformandoci in una via di mezzo tra il critico d’arte Daverio e l’ispettore Manetta, proviamo ad


avanzare la nostra ipotesi e indichiamo la prima baccante che si incontra entrando nell’atrio: le piccole stelle bianche sul mantello celeste (secondo la tradizione caratterizzano la Poesia), la veste rossa coperta dal manto celeste (sono i colori mariani) e la posizione centrale rispetto al percorso d’entrata alla platea inducono a pensare che questa baccante godesse da parte del suo pittore di un’attenzione speciale. Ella ha lunghi capelli neri cinti da una corona d’alloro, indossa una gonna gialla e pare intenta a pizzicare una cetra.

All’ultimo piano della biblioteca Panizzi, nella tranquilla e defilata sezione della fototeca, è conservata una fotografia in bromuro d’argento datata 1860 (il decennio, come detto, dei dipinti), avente quale didascalia “Le sorelle Cugini”; l’immagine ritrae due donne dall’espressione un po’ severa ma con le teste che si piegano in un gesto di affetto sororale. Sono le sorelle delle quali parla l’articolo del 1944? Non abbiamo dati per rispondere con certezza, ma la donna di destra, abito scuro ben allacciato al collo e sguardo più dolce rispetto alla sorella, ci pare mostrare somiglianza con la baccante dalla chioma mora che abbiamo indicato. Forse era lei l’amata di Ugolini.

Il pittore, al quale Reggio ha intitolato la piazzetta in ciottoli che si apre a metà di via Emilia Santo Stefano, nacque nel giugno 1826, perciò fra un anno cadrà il suo bicentenario. Speriamo che in tutto questo tempo sia riuscito, quaggiù o lassù, a conquistare la sua baccante Cugini.