27 giugno 2025
Gita a Rontano, 2
23 giugno 2025
Un Govi abbandonato tra i boschi di Rontano
La struttura conobbe però fortuna solo per due decenni: invecchiato il gruppo di amici che l’aveva creata, rimase stancamente attiva fino ai primi anni ’80, forse dopo uno o più rimaneggiamenti architettonici. Da allora giace abbandonata, inerme alle intemperie da più di quaranta inverni consecutivi.
Ora i muri sono in rovina, tetto e soffitti crollati, dei dipinti di Govi rimane solo un frammento vandalizzato che raffigura -probabilmente- il gruppo di amici fondatori. Forse varrebbe la pena salvare almeno quello.
Sulla facciata campeggiavano in origine due grandi dipinti di Diana e Atteone, nella sala da pranzo erano scene di caccia e cacciagione, in cucina il ritratto della cuoca indaffarata tra i vapori; ma il capolavoro doveva essere la sala da bagno per gli ospiti (o "gabinetto", come dice meglio un articolo del '48), che presentava pareti popolate da pesci e sul soffitto un cielo navigato da gabbiani e visto attraverso la rifrazione dell’acqua, a riprodurre la visione da sotto il mare. Un’idea originale, quasi geniale. Di quel cielo nella mia faticosa spedizione in bici non ho trovato traccia; nessun pezzettino di blu emergeva dai mucchi di calcinacci che un tempo si ergevano a soffitto.
A fianco della struttura rimangono una voliera desolata, una serie allineata di cucce per i cani che attendevano all'ombra i loro gozzoviglianti padroni, una nicchia con tre ugelli; è probabile che questa fosse la “Fontana di Bacco”, dalla quale spillavano come per magia vino bianco, acqua e vino rosso. Coppi, astemio, scelse l’ugello dell’acqua.
Il destino d’abbandono del casino di Rontano ricorda quello dello chalet Diana nei giardini di Reggio, anch’esso disegnato da Sorgato e anch’esso almeno nominalmente legato alla caccia, della quale Diana era dea protettrice. Lo chalet Diana fu demolito a fine anni ‘50 per far posto all’asilo omonimo. Lo chalet di Rontano è ancora lassù e forse meriterebbe di essere in qualche modo salvato. Se i rovi, suoi unici protettori da più di quarant’anni, lo permetteranno.
Dati geografici del casino: 44°30'11.2"N 10°41'19.7"E
Lo sciopero delle Reggiane, settantacinque anni fa
Tre quarti di secolo sono trascorsi da allora. La fabbrica fu occupata per 368 giorni, dal 5 ottobre 1950 all’8 ottobre 1951, ma la lunga e coraggiosa vertenza si concluse, sul piano concreto, in una resa: dopo un anno di auto-gestione operaia la nuova dirigenza ri-assunse solo 700 operai, a fronte dei più di quattromila salariati fino a tredici mesi prima.
Tra quelle migliaia di lavoratori in lotta uno dei più giovani era Dario Cavalca, classe 1932 e dunque diciottenne all’inizio dello sciopero. Ora Cavalca vive a Mancasale, con vista sulle vele di Calatrava, insieme a figlio, nuora, nipote e nipotini.
“Ero entrato alla Reggiane il 13 maggio 1947 -ricorda- Avevo appena compiuto 15 anni, prima di quell’età non ti assumevano. Non era il mio primo lavoro; dalla fine della guerra al ’47 ero stato a bottega da Salsi calzolaio, in via Crispi, di fronte al Radium; stava tra Moda Italiana e la cioccolateria Helvetia, forse qualcuno ricorderà. Ma non mi piaceva fare il calzolaio”.
Alle Reggiane fabbricavate aerei?
“Io ero nel reparto mulini. Costruivamo mulini per la macina del grano. Nel mio reparto eravamo in 60 o 70, ma l’intera azienda coinvolgeva migliaia di persone. Durante il conflitto, quando le Reggiane creavano aerei da guerra, gli impiegati erano dodicimila. Per una città come Reggio, un’industria fondamentale. Ai mulini avevamo un caporeparto pingue, soprannominato per ciò ‘Il prete’; e così io divenni ‘Cerech’, il chierichetto, perché ero il più giovane e, allora, anche un po’ paffuto”.
Nell’autunno ’50 decideste lo sciopero.
“La dirigenza voleva lasciare a casa metà degli operai. Si scelse di occupare la fabbrica, per contrastare quella decisione e successivamente anche per impedire che la produzione si interrompesse. Durante quei dodici mesi fu creato il trattore R60, rimasto famoso proprio perché ideato e prodotto dagli operai”.
Dodici mesi senza stipendio.
“Furono duri soprattutto per chi aveva una famiglia da mantenere. Io non avevo ancora moglie, sentivo meno pressione. Proprio per questo la sera del 31 dicembre ’50 fui scelto per il servizio di guardia. Mia madre se ne ebbe a male: ‘quando non ci sarò più ti rammaricherai di questo capodanno trascorso senza la tua famiglia!’… “
Provava orgoglio a essere chiamato a quei compiti?
“Beh, c’era senso di avventura e la sensazione di stare facendo la cosa giusta. Poi, sì, anche un po’ di orgoglio”.
La popolazione vi sosteneva?
“Nelle cucine le donne facevano da mangiare per tutti. A Natale ’50 ci fu una raccolta di sostegno, i contadini della campagna donarono tante galline che furono distribuite una a testa. Io portai la mia a casa, a Buco del Signore; la spennai e la appesi fuori dalla finestra, allora non avevamo certo il frigorifero. Al mattino al risveglio era sparita… qualche vicino doveva averla notata”.
Dove trascorrevate la notte durante l’occupazione?
“Dormivamo sulle brande, negli uffici. Ma non passavamo in fabbrica tutto il tempo. In quel periodo ad esempio mi avvicinai al teatro; un mio amico faceva il capo-claque al Municipale e mi coinvolse nella claque. Il gradino successivo fu come comparsa nelle opere liriche: ”La forza del destino”, “Boheme”, “Turandot”; “La traviata”, che musicalmente era semplice semplice. Una delle mie ultime prove da comparsa fu quando avvenne il debutto di quel tenore modenese, Luciano... Luciano Pavarotti. Provai anche a divenire corista, ma dopo tre o quattro tentativi il maestro del coro mi prese da parte e mi disse ‘guardi, Dario, penso che non sia cosa per lei’ “
Lo sciopero si concluse dopo 368 giorni, ma senza felici risultati per voi.
“La pressione delle forze di polizia si faceva più incalzante e nel frattempo molti operai, spinti dalla necessità, avevano trovato posto altrove: alla Lombardini di Pieve, alla Landini di Fabbrico, non pochi emigranti in Francia. Eravamo delusi? Senz’altro. Io cercai di farmi riassumere nel ’53, ma la consegna dei nuovi direttori era che chi aveva fatto la lotta non poteva essere assunto. Che io sappia, nessuno dei partecipanti all’occupazione riebbe il posto”.
13 giugno 2025
La Sala Melato nel Teatro Ariosto
La Sala Melato, il foyer del teatro Ariosto, è uno dei mille luoghi del territorio reggiano cosparsi di polvere di storia. La sala prende nome da un busto in bronzo del 1920 che vi svetta e che raffigura Maria Melato, attrice reggiana molto amata tra gli anni ’10 e i ’30 del novecento non solo in Italia ma anche in Spagna e nelle Americhe (“quando da bambina assumevo atteggiamenti drammatici -ha ricordato di recente una signora di Buenos Aires- i miei genitori mi chiamavano Maria Melato, anche se non capivo perché…”). Il busto in bronzo fu plasmato dallo scultore reggiano Riccardo Secchi e inaugurato nella primavera 1922, alla presenza dell’attrice. Melato aveva fatto tappa a Reggio nel corso della sua tournée e sul palcoscenico dell’Ariosto interpretò in quell’occasione tre drammi: la prima sera “La Gioconda” di D’Annunzio; la seconda sera, dopo l’inaugurazione pomeridiana del busto, “La vena d’oro” di Zorzi; la terza sera, fuori programma quale ringraziamento ai reggiani, un altro dei copioni da lei più amati, “Come le foglie” di Giacosa.